formazione psichiatrica

 

DE PASQUALE CONCETTA* , AGRILLO MARIASSUNTA**

L’OMICIDIO IN AMBIENTE DOMESTICO: ANALISI DEL FENOMENO

Tra i fenomeni di crescente allarme sociale, quello degli omicidi in ambiente domestico riveste certamente un ruolo primario. Osservando i dati EU.R.E.S. presentati nel gennaio 2008 a Roma, relativi al-l’anno 2006, appare evidente che ci troviamo in presenza di un fenomeno di larga scala: i delitti tra le mura domestiche e all’interno dello stesso nucleo familiare so-no infatti al primo posto con il 31,7% del totale nazionale, con 195 casi registrati su un totale di 621 nel 2007. Risulta, quindi, doveroso proporre letture e strumenti di analisi che vadano ad indagare più in profondità i meccanismi sociali, i modelli relazionali e le strutture che regolano e definiscono gli spazi ed i ruoli all’interno del nucleo familiare. Il fenomeno è in netto aumento (+12,1% solo 174 casi nel 2005) e continua a caratterizzare principalmente il Nord (94 vittime, pari al 48,2%) seguito dal Sud (62 vittime, 31,8%) e dal Centro (39 vittime, 20%). Nel Sud al primo posto ci sono gli omicidi compiuti dalla criminalità organizza-ta (44,6%), mentre i delitti in famiglia si attestano al 19,2% (62 casi nel 2006). La Lombardia conserva anche per il 2006 il triste primato dei delitti in famiglia, pur registrando un leggero calo rispetto al 2005 (da 34 a 30), seguita da Veneto (22) e Campania (18). Le vittime più frequenti sono le donne (134 nel 2006, +37,7% rispetto alle 98 del 2005). Gli uomini, con 61 vittime rappresentano il 31,1%. Molto consistente si conferma il numero di vittime in famiglia ultrasessantenni (38 casi nel 2006, pari al 19,5% del totale). La “coppia affettiva” mantiene anche nel 2006 il primato nei delitti compiuti in famiglia, con 103 vittime complessive, pari al 52,8%. Tra questi è nel rapporto co-niugale che si conta la percentuale più elevata (70 casi, pari al 35,9), seguiti dai de-litti in cui le vittime sono ex coniugi o ex conviventi dell’autore (26, pari al 13,3%) e dagli omicidi maturati all’interno delle relazioni non formalizzate (7 vittime). Il secondo gruppo di omicidi familiari riguarda la relazione genitori/figli (23,6%) con 21 genitori uccisi dai figli e 23 figlicidi. Il terzo gruppo riguarda le altre relazioni di parentela (35 vittime nel 2006, pari al 18%), tra le quali il dato di maggiore interesse riguarda i fratricidi (10 vittime, pari al 5,1% degli omicidi in famiglia). L’analisi dei movimenti dei delitti familiari rileva una prevalenza degli omicidi derivanti da liti e dissapori (24,6%). Al secondo posto si colloca l’omicidio passionale che, anche nel 2006, si carat-terizza come un fenomeno diffuso prevalentemente al Nord (28,7% dei casi, segui-to dal Sud con il 19,4% e dal Centro con il 7,7%). Sul fonte opposto gli omicidi per motivi di interesse/denaro continuano ad esse-re prevalenti al Sud (16,1% a fronte del 5,3% del Nord e il 2,6% del Centro). Oggi più che mai la famiglia manifesta segni di violenza, lamenta grossi disagi, appare disorganizzata e destrutturata. Seguendo questa chiave di lettura, vogliamo intendere qui il “delitto familiare” come il sintomo ultimo di equilibri fortemente alterati all’interno della famiglia in cui i ruoli storicamente stabiliti vengono a volte messi in discussione, altre, capo-volti e distorti. La funzione della famiglia come contenitore degli umori individuali appare og-gi, in un certo qual senso, svuotata del suo significato. È necessario pertanto, guardare a questi avvenimenti inseriti in un contesto più ampio, ovvero quello del sociale, rispetto a un’analisi meramente psichiatrica del fenomeno che non risulterebbe del tutto esaustiva. È chiaro che esistono delle specificità patologiche legate a scompensi psichiatri-ci, ma questa non deve essere l’unica prospettiva da cui analizzare tali fatti delit-tuosi poiché, spesso, la genesi che determina l’atto finale è una comunione e com-mistione di tutti gli input che provengono dalla vita quotidiana. Gli studi sociali attuali e del passato, pur nella diversità degli approcci utilizzati, hanno sempre cercato di ricondurre la famiglia a dei modelli: pattern. Tuttavia, questi non sono esaustivi per definire un ambito in continuo divenire. Il momento storico-culturale che stiamo vivendo, sempre più improntato e per-vaso da concetti di globalizzazione e per molti aspetti di omogeneizzazione, vede nello stesso tempo un concetto e una forma di famiglia sempre più differenziato e profondamente caratterizzato dalla individualità. Dobbiamo allora cercare di capire perché la famiglia, cellula base della società, sempre più spesso diviene ambito in cui maturano fatti di violenza che degenerano poi in tragedia. La prima difficoltà si incontra già nel tentativo di definizione del concetto di famiglia. Partendo dal presupposto che la famiglia è una relazione sociale piena, che muta forma a seconda dell’esperienza e dei progetti di vita di ciascun individuo ed è in rapporto constante con il micro e il macrocosmo di riferimento, consideriamo “la famiglia contemporanea come un sistema vivente, altamente complesso, differen-ziato e a confini variabili, in cui si realizza quell’esperienza vitale specifica che è fondamentale per la strutturazione dell’individuo come persona, cioè come indivi-duo in relazione (essere relazionale), nelle sue determinazioni di genere e di età, quindi nei rapporti fra i sessi e le generazioni. Le trasformazioni della società attuale dovute a motivi politici, economici, all’inclusione di modelli culturali distanti e all’adozione di stili comportamentali non propri della nostra cultura europea e italiana, hanno spesso alterato drammati-camente gli equilibri all’interno della famiglia, mettendo fortemente in discussione i ruoli da sempre stabiliti, e deludendo, non di rado, le aspettative reciproche dei membri della stessa. L’Italia, fortemente caratterizzata e contraddistinta dal concetto di famiglia, ri-spetto ad altre nazioni europee, travolta dal cambiamento, ha visto cedere uno dei pilastri della propria cultura. È come se vi fosse un’analogia tra la famiglia e un corpo inanimato. Essa appa-re sempre più incapace di gestire i fallimenti dei progetti di vita dei singoli, le in-soddisfazioni e le insofferenze. Cosi, come in un gioco perverso, queste negatività si rivoltano proprio contro di essa, fagocitandola. In questo modo, paradossalmente, la famiglia diventa luogo preferito in cui e su cui scaricare l’aggressività. La difficoltà esistenziale nella gestione quotidiana porta gli individui ad una continua tensione, dovuta anche alla fortissima competitività su cui si basano molti rapporti sociali e lavorativi. Il successo ad ogni costo e senza scrupoli imposto dai modelli culturali, costrin-ge l’individuo a muoversi tra una realtà macrosociale difficile da affrontare e da superare ed una famiglia incapace di fornire certezze e stabilità. In questo modo la via “più semplice” è quella di scaricare le frustrazioni sui congiunti e tra questi, quelli più deboli come donne e bambini. Non è, infatti, da sottovalutare l’influenza che i modelli culturali attuali esercitano sull’individuo (fiction, riviste, prototipi di corpi perfetti, etc.). Non si è così superficiali da ammettere connessioni di causalità lineare tra input e output, ma non va sottovalutata l’influenza di alcuni modelli. Se è vero che essi si propongono a tutti, è ammissibile che tra questi vi siano anche individui fortemente provati, con interiorità ed equilibri compromessi sui quali si vanno ad innestare proiezioni irrealizzabili e pertanto, potenzialmente capaci di creare una miscela esplosiva in famiglia. Sfortunatamente, appare più facile e legittimo sfogarsi con chi è più vicino, an-che perché, sempre più spesso, è proprio la famiglia ad essere individuata come motivo principale dei propri insuccessi. Considerando il nucleo familiare come luogo primario in cui originano le aspet-tative individuali e sociali, interne ed esterne al nucleo, ed il sistema dei valori che ne è alla base, quando il ruolo sociale dei singoli membri del nucleo entra in con-flitto con le aspettative individuali dei singoli, i meccanismi aggressivi, che questo processo genera, tendono a “scaricarsi” proprio sugli altri membri del nucleo, con-siderati come i principali responsabili (diretti o indiretti) di questo conflitto. Dagli studi di Charmet emergono cambiamenti circa i nuclei familiari di ieri e di oggi. In passato, la famiglia svolgeva una funzione normativa ed etica di tra-smissione valoriale verso i figli; oggi svolge prevalentemente una funzione socio-affettiva, ossia ha lasciato la funzione normativa ai gruppi sociali che i figli fre-quentano e ha preferito ricoprire una funzione affettiva le cui conseguenze si riper-cuotono sulle dinamiche familiari (basti citare ad esempio il fenomeno della fami-glia lunga). Il fenomeno della famiglia lunga(1) ci riporta alle dinamiche familiari violente, dove i figli cercano indipendenza economica e personale, e i genitori si ritrovano ad accudire dei figli adulti. Il rapporto genitore-figlio o, meglio, gli stili di attaccamento, rispetto alle teorie di Bowlby, sono mutati a tal punto da non riuscire ad identificare i soggetti che compiono parenticidi in determinati stili di attaccamento. Solitamente il riferimento allo stile di attaccamento disorganizzato porta i minori ad avere pulsioni devianti ma troppi fattori non possono essere tralasciati circa la pulsione omicida di uno o più membri della famiglia. Nei numerosi casi degli ultimi anni, si è discusso dei disturbi di personalità con particolare riferimento allo schizotipico e/o paranoideo, ma anche di persone fragili con una affettività arida e sterile, la quale li ha indotti a una forma d’irrespon-sabilità diretta verso se stessi e la società. Rispetto al senso generale del rapporto controverso tra malattia mentale e com-portamenti criminosi di natura violenta, si concorda appieno con le parole di Ugo Fornari(2) , che desideriamo qui riportare: “…occorre usare molta cautela nel sostenere che il comportamento violento è strettamente connesso alla presenza di disturbi patologici psichici, ponendo una sorta di equivalenza tra delittuosità violenta e patologia mentale, quest’ultima de-terminata a sua volta, da alterazioni biologiche del cervello. Una cosa è, infatti, stabilire correlazioni significative tra psicosi “funzionali” ed “organiche” e cri-mini violenti, se e quando è possibile (l’assoluta maggioranza degli schizofrenici e dei bipolari non commette reati violenti); altra cosa è estendere la correlazione ai cosidetti disturbi di personalità, senza tenere conto che i medesimi disturbi di per-sonalità possono essere di facile riscontro in un’ampia gamma della popolazione che non ha mai commesso e non commette reati siffatti. Una cosa è affermare che il disturbo paranoide, quello schizotipico, quello an-tisociale (che per altro non ha sufficiente validità diagnostico-clinica, a nostro modo di vedere) e quello borderline (categoria confusa e mal determinata) sono di frequente riscontro tra gli autori dei delitti sessuali, contro la persona e recidivi. Altra cosa è sostenere l’esistenza di un rapporto criminogenetico uni-causale che determina il comportamento violento, specie nei delinquenti affetti da disturbo an-tisociale e da disturbo borderline di personalità, nei quali molti disturbi non sono che una riformulazione in termini psichiatrici di caratteristiche proprie del com-portamento delinquenziale e delle condotte violente, auto ed etero dirette…”. Per quanto riguarda il rapporto tra crimini violenti e disturbi dell’asse II(3) , se-condo Skodol le patologie più spesso chiamate in causa, tra i disturbi di personali-tà, sono le forme antisociali, borderline, schizoide e paranoide, in misura minore quelle narcisistiche e istrioniche, più raramente le forme dipendenti. Senza addentrarci nell’importante letteratura in materia, un rapido accenno me-rita il rapporto tra reati violenti e uso di sostanze: a riguardo, possiamo senza dub-bio attestare la correlazione diretta tra le due variabili; tale correlazione appare in termini ancora più importanti quando l’abuso di alcol si affianca ad altri disturbi psichiatri, a realizzare una condizione delicata e potenzialmente esplosiva di co-morbidità. Al di là delle classificazioni cliniche, interessa qui considerare l’aspetto crimi-nologico del disturbo mentale. La maggior parte degli schizofrenici, contrariamente all’opinione diffusa, non commette alcun tipo di reato. La pericolosità e il rischio di commissione di gravi atti delinquenziali, è legata soprattutto alla fase attiva e acuta della malattia in cui i sintomi psicotici, deliri, allucinazioni, incoerenza e il-logicità del pensiero, sono assolutamente prevalenti: con agiti improvvisi e impre-vedibili si possono avere violenze su cose e persone, incendi, lesioni ed anche omi-cidi. È stato dimostrato come sovente proprio la commissione di un delitto violento (ad esempio, un omicidio), possa rappresentare la prima vera manifestazione della schizofrenia: il cosiddetto delitto-sintomo. Quanto al problema dell’imputabilità del soggetto affetto da schizofrenia, non è giustificabile ritenere una indiscriminata incapacità di intendere e di volere, consi-derato che nella malattia sono comunque presenti degli intervalli di relativo equili-brio funzionale, che permettono al soggetto un’autonoma libertà di autodetermina-zione. In questi casi sarà, dunque, la perizia a stabilire se la capacità predetta, sussiste-va, era gradualmente scemata o del tutto assente. Preme qui aggiungere, la famiglia, dunque, luogo sicuro da sempre, è diventato un luogo insicuro dove la violenza ricopre un ruolo primario. I soggetti appartenen-ti al nucleo familiare ricoprono ruoli diversi e vivono periodi di crisi in maniera di-versa, nel passaggio dalla convivenza al matrimonio e infine, alla nascita dei figli. La crisi, che dovrebbe evolversi in uno sviluppo funzionale, spesso porta a crisi ir-reversibili dei ruoli e della stessa individualità. Negli ultimi decenni, il ruolo della famiglia è cambiato, le dinamiche familiari sono diventate più complesse e fragili, la modifica degli assetti familiari (monoge-nitoriali, plurifamiliari) ha portato la famiglia ad essere non più la famiglia etica, ma una famiglia affettiva. La famiglia, dunque, luogo sicuro da sempre, è diventato un luogo insicuro do-ve la violenza ricopre un ruolo primario. E allora le domande risultano molteplici: queste famiglie derelitte, teatro di massacri quotidiani possono considerarsi “normali”? Quale differenza intercorre fra “apparentemente normali” e “normali”? E ancora, è possibile che non vi siamo dei sentori di “allarme” manifesti a chi appartiene o è vicino a questi nuclei fami-liari disfunzionali? È ammissibile il raggiungimento di un tale grado di solitudine? Infine, in presenza di sintomatologie psichiche conclamate di un membro della fa-miglia, possiamo definire quali quadri psicopatologici sono più a rischio? Risulta impossibile isolare e identificare un unico fattore come causa determi-nante dei casi di omicidio-suicidio e rispondere a tali domande. L’ampia casistica degli studi realizzati su tale fenomeno non sembra essere suf-ficiente a comprenderlo fino in fondo, anche se le sue origini sembrano trovare ra-dici comuni nella natura degli affetti. Al di sotto, infatti, del generico e cosiddetto movente, che si utilizza per indivi-duare una fattispecie delittuosa comune a diverse situazioni, sussistono motivazioni profonde che possono essere molto personali, appartenenti a chi commette il crimi-ne o anche alla vittima, pertanto destinate spesso a rimanere sconosciute. Attraverso una serie di considerazioni tenteremo di definire l’idea di “apparente normalità”. La prima fonte di errore popolare, quello che fa credere al senso comu-ne di poter conoscere le persone che vediamo o incontriamo in base ad una breve prima impressione è la valutazione di “normalità” dall’apparenza; essa in realtà rappresenta solo una fotografia “statica” della persona in oggetto, che non consente di ottenere informazioni circa il suo comportamento abituale ed il suo funziona-mento psichico, che costituiscono le aree dinamiche del soggetto. Spesso la maggior parte delle persone intraprendono una vita sociale con gli al-tri sulla base di “luoghi comuni”, ovvero attraverso lo scambio di contenuti social-mente condivisi e convenzionali, i quali rendono le persone apparentemente simili e omologate, soprattutto i membri di una stessa comunità territoriale. I luoghi co-muni, però nascondono le differenze individuali, impedendo la conoscenza appro-fondita degli altri. All’interno del nucleo familiare, sempre più attraversato da logiche di tipo eco-nomico e dalla fugacità delle occasioni di autentica comunicazione, nel tempo si può avere una lenta erosione dei rapporti, fino all’estraneità domestica, senza che, peraltro, le altre persone al di fuori ne vengano a conoscenza. Le risposte soggettive alla frustrazione sono sempre più improntate alla logica del tutto/nulla, pertanto di fronte alla disperazione e a periodi particolarmente diffi-cili in cui non si riesce a sopportare il peso delle responsabilità (anche familiari) la reazione di un qualsiasi soggetto è più facilmente estrema e risolutiva, piuttosto che sfumata e filtrata dall’elaborazione critica. Alcune forme di disagio mentale possono attraversare l’esistenza di una persona senza segni e manifestazioni particolarmente evidenti, alimentandosi pian piano nel tempo fino a sfociare in ciò che viene indebitamente definito “raptus”, ma che in realtà rappresenta il punto di rottura di un equilibrio lentamente minato dall’in-terno. Vittorino Andreoli (2003, 1996) in merito ai conflitti tra padri e figli sostiene che rappresentano una costante della storia e mettono in evidenza, da una parte, la diversità delle visioni del mondo che si susseguono in modo sempre più sostenuto (da contrapporsi già a distanza di pochi anni di età), dall’altra l’amore familiare ri-dotto a metafora di un desiderio. È probabile che l’imperativo “onora il padre e la madre” esprima proprio la ne-cessità di legiferare un comportamento che altrimenti nel tempo conduce all’odio. Il potenziale di antagonismo “padri-figli” ha, dunque, una componente sociale im-portante, e si è persino ipotizzato che si tratti di una guerra necessaria e utile nello sviluppo della loro personalità, una necessità di lotta per crescere. Il conflitto può farsi estremo e giungere a uccidere. E così si compiono omicidi di madri o di padri, ma anche della “coppia”, che Andreoli definisce «genitoricidi», per altro, vertiginosamente aumentati negli ulti-mi anni, dimostrando che ad essere colpita è la figura genitoriale così come il suo ruolo sociale. La ragione più diffusa di questi omicidi, sarebbe il soddisfacimento economico, assunto che l’eliminazione dei genitori, fonte abituale di approvvigio-namento, assurge ad un provvedimento per uscire da un modo di vita insoddisfa-cente in cui i genitori sono ridotti alla stregua di un “salvadanaio”. Gorge B. Palermo e Mark T. Palermo postulano la cosiddetta «teoria della fa-miglia ostile» (Palermo et al, 2003): nei casi di parricidio, l’atto si manifesterebbe frequentemente come reazione alle incessanti umiliazioni cui sono sottoposti un fi-glio o una figlia da un padre brutale; nel matricidio, invece, spesso si tratta di una combinazione di dipendenza e di un desiderio frustrato ossessivo di vicinanza alla madre, manifestata da un bambino, da un adolescente o da un giovane uomo, ad alimentare la violenza. Sebbene la maggior parte dei figli parricidi o matricidi non presenta psicosi, vi sarebbero senz’altro casi di ragazzi parricidi sulla base di fenomeni allucinatori uditivi (voci) di comando. Ciò nonostante, questo è più comune nei parricidi adulti. Il parricidio, analizzato come principale e primordiale delitto tanto dell’umanità quanto dell’individuo, occupa un posto preminente nel sistema freudiano ricorren-do all’analisi del noto romanzo di F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov (Freud, 1978). Secondo la concezione psicodinamica, questo reato si sostanzierebbe in un rapporto “ambivalente”, commisto di odio e tenerezza, fra bambino e padre: il pri-mo vorrebbe essere al posto del padre perché lo ammira e con quest’ultimo si iden-tifica ma, al contempo, sono presenti sentimenti di soppressione. Nel bambino, si sviluppa la comprensione che l’eliminazione della figura paterna importerebbe l’evirazione, la quale gioca invece il ruolo di freno inibitore di un desiderio che, conservato nell’inconscio, contribuisce a costituire il fondamento del senso di col-pa. Fra Freud e Cesare Lombroso, le differenze sono sostanziali: per quest’ultimo sono preminenti i fattori congeniti, Freud valorizza invece le esperienze vissute; per Lombroso, fra il delinquente e gli altri esseri umani, vi è, potremmo dire, uno “scarto”; Freud ritiene invece che tutti gli uomini nascono con “istinti immorali”, riconoscendo altresì, nello sviluppo della personalità, varie fasi la cui importanza viene distinta da quanto spetta ai fattori costituzionali ed ambientali. Innegabile inoltre la differenza metodologica ancorché comuni siano gli interessi antropologi-ci e la passione per le teorie evoluzioniste. Lombroso riteneva che la soppressione di membri della famiglia, in tutte le pos-sibili maniere, fosse caratteristica delle tribù primitive e, nell’opera L’uomo delin-quente, egli sostiene che «… il delinquente si manifesta perciò come un fenomeno naturale, allo stesso modo che la nascita, la morte, la malattia mentale perciò le a-zioni istintivamente crudeli degli animali, e persino quelle delle piante, si trovano con quelle del delinquente, e con la sua brutale malvagità, in una relazione non così lontana come si suppone…» (Lombroso, 1878). La stessa mitologia viene indicata come la “divinizzazione del delinquente” ed il germe della pazzia morale e della delinquenza si troverebbe, non per eccezione, ma normalmente nelle prime età dell’uomo di modo che il fanciullo rappresente-rebbe un uomo, per così dire, privo di senso morale nel quale albergano atti e sen-timenti che sarebbero abnormi e criminosi negli adulti, ma che sono in lui normali perché corrispondono ad uno stadio “bloccato” di sviluppo psichico nel quale egli si trova. In altre parole, il bene ed il male in un bambino si identificano in ciò che è permesso o proibito dal padre e dalla madre: l’idea della giustizia, il sentimento della proprietà, la nozione del bene e del male, il senso morale sorgono dopo aver risentito il dolore della pena per aver violato certe norme. Se quindi le tendenze criminose di un bambino sono generali, ben si comprende l’importanza attribuita all’educazione intesa non solo come semplice istruzione te-orica ma anche come applicazione pratica di nuove abitudini, attraverso l’imitazio-ne e con la civile convivenza il che motiva l’affermazione che «… il furto, l’infan-ticidio, il parricidio, tutto ha avuto il suo posto tra le azioni virtuose; e noi li ab-biamo infatti trovati come manifestazioni normali tra i popoli primitivi e tra i sel-vaggi, ma grazie al senso morale progredito, essi sono ormai riprovati come delitti e non vengono più commessi che da uno scarso numero di individui i consideriamo e trattiamo come “criminali”…» (Lombroso, op. cit.). Schipkowensky, in contrasto con il Lombroso, rileva come molti autori abbiano accertato che nelle primitive tribù l’uccisione dei membri della famiglia avviene di rado. È vero che gli assassini per lo più non sono puniti, ma ciò perché essi stessi hanno in verità “subito il danno”, patendo dolori anche fisici come conseguenza del loro atto. Tuttavia i colpevoli e i loro congiunti compiono cerimonie purificatrici e sacrifici per placare gli antenati offesi; presso alcune tribù l’omicida è maledetto da tutti gli appartenenti al clan (Schipkowensky, 1963). Relativamente al pensiero freudiano, Schipkowensky individua due elementi. Per il modello dell’uccisione del padre e dell’incesto con la madre si è, infondata-mente, scelta la tragedia di Sofocle: Edipo non uccide suo padre, il re di Corinto, che invece lo aveva lasciato sin dai primi giorni della sua esistenza; trattasi, in altre parole, di un uomo a lui del tutto sconosciuto. Relativamente all’incesto, egli non aveva mai sentito alcuna attrazione sessuale verso sua madre, avendo cioè sposato, senza particolare scelta, la vedova del re. Da quanto postulato, ne segue che Edipo è soltanto strumento degli dei e ciò che gli si rimprovera è avvenuto senza la sua volontà. Schipkowensky rilevava inoltre che, nella letteratura, Freud non aveva scoperto nessun altro, all’infuori di Edipo, che avesse compiuto un “doppio delitto” e, malgrado ciò, il protagonista della tragedia sofoclea diventa il modello dello svi-luppo umano, individuale e sociale (Schipkowensky, 1938). Questo autore, dopo aver segnalato la sola relativa e non generalizzabile inci-denza della psicosi (in particolare la schizofrenia) e delle psicopatie, evidenziava in prima analisi la necessità di considerare anche gli assassini degli ascendenti, in par-ticolare dei nonni, perché si devono porre, fondamentalmente, sullo stesso piano dei rapporti parentali, i rapporti tra nonni e nipoti. Esaminati quindi alcuni casi di parricidio e matricidio, egli concludeva che un gran numero di parricidi sono in-dubbiamente psicopatici, e sono mossi al delitto da semplici motivazioni, ricondot-te al concorso di tare ereditarie e di vicende sfavorevoli della vita (come l’essere figli illegittimi), o al semplice odio verso il padre. Per altro, in alcuni casi di omici-dio del proprio padre, Schipkowensky ritrovava la caratteristica riconoscibile della distruzione psicopatica della vita altrui come mezzo per ottenere o per raggiungere facilmente ciò che piace, identificando il cosiddetto «Omicidio liberatore». Quest’ultimo, derivante da impulsi indistinti propri dell’età evolutiva, ha come scopo l’eliminazione di chi ostacola il “raggiungimento o la conservazione della felicità”. Stante ciò, il delitto liberatorio è talvolta l’aspetto apparente di motivi più pro-fondi che l’autore individua nei termini del «parricidio riparatore»: il padre viene cioè ucciso non perché sia di ostacolo al figlio nel suo tendere alla felicità o alla conquista incestuosa della madre, ma piuttosto perché egli (il padre) ha consentito che venissero vilipesi i valori morali della famiglia. Qui, dunque, il figlio assume il posto del padre non in senso edipico ma per la difesa dell’etica familiare sentita minacciata per l’inadeguatezza del padre stesso e per la decadenza dell’ideale dei genitori. Egli sceglie la via più breve, per la restituzione dei valori morali della fa-miglia, senza prevedere i nuovi problemi che sorgeranno dal delitto, e che certa-mente non potranno essere risolti con il parricidio. In un sistema familiare tipico, i componenti normalmente si astengono da atti gravi di violenza per risolvere le proprie controversie interpersonali. Viceversa, in famiglie di tipo caotico, si svilupperebbero violenze di tipo mar-ginale, e violenza che occasionalmente e improvvisamente si espande in compor-tamenti esplosivi, ancorché temporanei, ma con una valenza distruttiva cronica ai danni di un equilibrio familiare precario. In questa famiglia “ostile”, i componenti violenti e ultraviolenti, che dettano le regole di comportamento da rispettare e minacciano gli altri familiari (la moglie, i figli) con esplosioni di violenza, mantengono il controllo totale. Nei casi di matricidio, il padre è spesso assente o distaccato; la sua relazione con il figlio è deficitaria. Questo favorisce nel figlio matricida lo sviluppo di un ec-cessiva dipendenza nei confronti della madre, al punto da sentirsene sopraffatto. Cerca di allontanarsi da lei rendendosi conto della propria debolezza, e della totale assenza di forza di volontà, per timore che possa divenire completamente dipen-dente dalla madre. Incapace di scappare, però, la uccide, ritenendo che questo lo renda definitivamente libero. Chiaramente l’omicidio non risolve il problema della sua dipendenza, ma esita solamente in un’accentuazione del proprio senso di colpa e solitudine. Si è voluto mettere in evidenza che c’è una normalità di questo modello che de-termina violenza, perché non sempre tali dinamiche affondano le proprie radici nel-la patologia, pertanto risulta molto più difficile leggere i meccanismi della normali-tà che determinano atti di violenza o, nel peggiore dei casi, l’omicidio.

RIASSUNTO

Gli omicidi in Italia sono circa mille ogni anno: tre al giorno circa, e di questi il 35,3% è avvenuto all’interno della famiglia, che rappresenta il primo tra gli ambienti in cui matura questo crimine. Molti omicidi passano inosservati, dentro le aule di giustizia e nella mente di chi subisce un lutto per una morte inaccettabile in quanto non decretata dal destino, ma da un altro uo-mo. Il perpetrare di questi comportamenti all’interno del nucleo familiare, evidenzia dram-maticamente come la considerazione dello “spazio familiare” - basato su legami di amore e di solidarietà, con lo scopo di proteggere i membri che ne fanno parte - è una realtà molto difficile da attuare. Quando i crimini accadono all’interno del nucleo familiare, i confini della famiglia si spezzano, lo stesso concetto di famiglia va in frantumi. Semplicemente, si perde il ruolo fondamentale di guida e contenimento emotivo ed essa appare in tutta la sua fragilità.

SUMMARY

The homicides in Italy are around thousand every year: three a day around, and of these the 35,3% has happened inside the family, that is set as the first one among the circles in which mature this crime. Many homicides pass unnoticed, they remain that is inside the classrooms of justice and in the mind of whom suffers a mourning for an unacceptable death since decreed not by the destiny, but from another man. The perpetrated of these behaviors, set in to be inside the family nucleus, it dramatically underlines as the consideration of the “family place” - based on ties of love and solidarity, that the purpose has to protect the members that make part of it, - is a reality very difficult to effect. When crimes happen inside the family nucleus, the family boundaries they are broken, the same concept of family is shattered. Simply, it loses the fundamental role of guide and emotional containment and it appears in all of its brittleness.

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